Guida Psicologi: qual è la domanda più importante in terapia?

La Dott.ssa Francesca Cervati psicologa che opera a Brescia nello Studio il Bucaneve, non cambia molto l’algoritmo del lavoro che c’è da fare, quello che fa davvero la differenza in questo settore sono le persone.

Un fattore che accomuna la gente, specialmente quella che non si affida ad uno specialista, è la curiosità riguardo alla terapia stessa.

Una domanda che spesso viene rivolta agli psicologi o psicoterapeuti è di spiegargli meglio i famosi momenti “a-ha”, ovvero quei casi in cui il cliente acquisisce nuove conoscenze sulle sue difficoltà e su sé stesso.

Contrariamente alle credenze popolari e alle rappresentazioni cinematografiche, i momenti “a-ha” non sono necessari per progredire nella terapia.

Spesso i clienti sanno benissimo qual è l’origine dei loro problemi e come risolverli; le persone che chiedono consigli raramente sono sprovvedute su ciò che occorre fare. Ciò che manca è la fiducia in sé stessi, il sostegno e la guida per agire sulla base delle proprie conoscenze.

Questo è uno dei motivi per cui gli psicologi spesso rispondono alla domanda di un cliente “Cosa devo fare?” con “Cosa pensi che dovresti fare?”.

I momenti “a-ha” sono solo l’inizio

 

Quando i momenti “a-ha” si verificano, non segnano la fine del processo di recupero, ma il suo inizio.

In altre parole, mentre l’intrattenimento popolare e la classica narrazione freudiana dipingono l’insight e la catarsi come il culmine del percorso terapeutico, nella vita reale generalmente non è così.

Per produrre un vero cambiamento, i momenti di insight devono essere seguiti da un duro lavoro per cambiare vecchie abitudini radicate e stabilirne di nuove e sane. Diventare consapevoli della soluzione al proprio problema non risolve di per sé il problema. La soluzione deve essere attuata.

Per di più, le esperienze “a-ha” spesso non emergono in una sola volta o in forma completa, ma lentamente, in modo frammentario e nel corso del tempo, assomigliando meno all’azionamento di un interruttore e più alla lenta rotazione di una manopola.

In altre parole, i momenti “a-ha” non sono sempre momenti. A volte le nuove intuizioni emergono lentamente nel corso della terapia, quando i clienti li riconoscono gradualmente, a volte in retrospettiva con sottili cambiamenti che si sono verificati nel tempo.

Un esempio semplice:

Riflettendo sul suo comportamento in ufficio negli ultimi mesi, una cliente nota gradualmente che sta diventando più assertiva e quindi più efficace. Questa constatazione ne porta un’altra: le sue precedenti convinzioni che sarebbe stata rifiutata se si fosse fatta valere vengono in effetti smentite e possono essere scartate e sostituite da un discorso su di sé più accurato e costruttivo.

Esistono domande per far suscitare momenti o esperienze “a-ha” in terapia?

 

L’esperienza come psicologa a Brescia della Dott.ssa Francesca Cervati dello Studio il Bucaneve ha sicuramente messo in chiaro che non esiste una formula segreta.

Qualsiasi momento, anche uno di contemplazione silenziosa, ha il potenziale per produrre una scoperta, indipendentemente dalla natura specifica di una determinata domanda o dal fatto che essa è stata posta.

Ogni cliente affronta un viaggio diverso, quindi generalizzare sarebbe un gravissimo errore ed una mancanza di eticità.

Ci sono inoltre diverse scuole di terapia. Ognuna può basarsi su differenti tipi di domande:

  • La psicologia cognitiva usa spesso la domanda “E allora?” per sondare le convinzioni irrazionali e catastrofiche del cliente (cliente: “Ho paura che la mia presentazione non piaccia alla gente”).
  • I terapeuti della realtà utilizzano Il “processo di interrogazione” ponendo una serie di domande utili: “Cosa vuoi? Cosa stai facendo (per ottenere ciò che vuoi)? Sta funzionando? Se no, cos’altro puoi fare?”.
  • I terapeuti orientati alla soluzione utilizzano spesso la cosiddetta domanda del miracolo: “Se stasera accadesse un miracolo e il problema fosse risolto, quale sarebbe la prima cosa che noteresti e che indicherebbe che è avvenuto un miracolo?”. In questa tradizione si utilizzano anche domande eccezionali, come “Quando non hai il problema?” e “Cosa fai di diverso in quel momento?”) per identificare i punti di forza e le risorse di coping del cliente.

Tuttavia, traendo dalla conoscenza della dottoressa, viene suggerito che i momenti chiarificatori in terapia si verificano spesso quando ci concentriamo sulle abitudini di evitamento del cliente.

La vera difficoltà è l’evitamento esperienziale

 

L’evitamento esperienziale (EA) può essere definito in senso lato come una “riluttanza a rimanere in contatto con pensieri, sentimenti, ricordi e altre esperienze private angoscianti”. In altre parole, è un tentativo di evitare l’angoscia.

La ricerca e la teorizzazione recenti in psicologia hanno evidenziato sempre più il fatto che tale evitamento è una caratteristica centrale di molti disturbi psicologici diversi:

  • le fobie comportano l’evitamento di determinati luoghi o oggetti;
  • il disturbo di panico comporta tenta di allontanare dalle sensazioni di paura nel corpo;
  • i rituali del disturbo ossessivo compulsivo costituiscono l’evitamento del disagio provocato da pensieri ossessivi disturbanti;
  • il disturbo da stress post-traumatico comporta l’evitamento di esperienze che scatenano ricordi traumatici terrificanti;
  • la depressione porta ad evitare i tentativi di trovare gratificazioni in un ambiente che in precedenza si era dimostrato non rispondente (alias “impotenza appresa”);
  • l’abuso di sostanze ti spinge ad anestetizzare l’angoscia, il senso di colpa, la vergogna o il dolore fisico, ecc.

In tutti questi casi, l’abitudine all’evitamento si presenta come soluzione. Tuttavia, si tratta sempre di un effetto a breve termine.

Sul lungo termine si rivela inefficace per la salute e il funzionamento dell’individuo. Il disagio psicologico, in altre parole, è causato da tentativi errati di evitare il disagio psicologico.

Si tratta di meccanismi che donano un sollievo immediato e che sembrano facili da gestire, ma nel tempo tendono a crollare. Come detto prima si tratta di soluzioni flash, che svaniscono in un battito di ciglia, ma la vita no, quella invece è a lungo termine. Per questo alla fine tutti i castelli ed i controlli cadono.

Il lato oscuro di questo processo? Si, perché l’autodistruzione non è la sola cattiva notizia.

In particolare, l’evitamento impedisce lo sviluppo di abilità di coping e ostacola l’apprendimento e la risoluzione dei problemi, poiché l’evitamento insegna solo a evitare di più. Inoltre, tende a generalizzarsi nel tempo: Più si evita di tollerare il disagio, più diventa difficile tollerarlo.

Quale domanda porre davvero?

 

L’astuzia dell’evitamento è uno dei motivi per cui molti clienti non sono consapevoli che il loro dolore è causato dai loro tentativi di evitarlo.

Pertanto, le domande che hanno maggiori probabilità di facilitare il processo di “a-ha” in terapia mirano spesso a illuminare questa verità.

Una volta identificato il modello di comportamento distruttivo, doloroso o inefficace che il cliente vuole cambiare, la domanda più utile è una qualche versione di: “Che cosa ti permette di evitare questo comportamento attuale?”.

Scoprendo ciò che un’abitudine disfunzionale ci permette di evitare, scopriamo ciò che dobbiamo affrontare per guarire.